Robert Rodriguez
Dal tramonto all’alba: il carnevale dell’horror
di Alessio Gradogna
A metà anni '70 il tema della famiglia smarrita nel deserto e assalita da orde di famelici invasati (Hills Have Eyes, Le colline hanno gli occhi, di Wes Craven, 1977) aveva configurato un nuovo linguaggio nel cinema horror, portatore di realtà sconosciute che andavano ad accanirsi contro persone spesso deboli ed indifese (The Texas Chainsaw Massacre, Non aprite quella porta, di Tobe Hooper, 1974), rappresentazione ultima della confusione che regnava negli anni post-rivoluzione sessantottina, coacervo di orrori indefinibili e soprattutto non preventivabili, nuova logica che vedeva nello spazio aperto un terreno di minacce ed esplorazioni di una collettività intrisa di mostri perfettamente (o quasi) umani e per questo ancor più spaventosi agli occhi del fruitore medio.
Negli anni '90 sono i vampiri a conquistare gli spazi desertici, e gli umani a finire nelle loro fauci. Esempio pregnante è From Dusk Till Dawn di Robert Rodriguez, opera interessante a più livelli di analisi, considerandola come estremo approdo della rarefazione del linguaggio del cinema horror e della dissacrazione comica come rottura della barriera sintattica tra il lecito e l'illecito, e tra l'horror come culto per appassionati e la commercializzazione ad ampio raggio.
From Dusk Till Dawn è per i vampiri ciò che Evil Dead (La casa, 1982) di Sam Raimi era stato per i morti viventi, un nuovo inizio e forse una fine, la conclusione definita dell'orrore puro attraverso il meccanismo della risata, il completo distacco dal Mito, nel senso più consolidato del termine, a favore dell'apparente denigrazione di opere seminali nel determinare i canoni dello sviluppo della cinematografia di genere. In realtà questo tradimento è solo apparente, in quanto l'opera di Rodriguez affastella citazioni a piè sospinto, cammei di star conosciute dagli appassionati, dissociazioni ironiche dai canoni della rappresentazione classica della sequenza horror, e soprattutto un ritmo sostenuto e una sessualità sfrenata che vanno perfettamente a incasellarsi come esempio di cosa sia divenuto il cinema all'alba del terzo millennio. In essa troviamo la parodia intrisa nel sangue, il simbolismo sessuale portato allo scoperto con assoluta disinvoltura, la rottura di ogni limite del tempo narrativo a vantaggio di una schizofrenia visiva che si pone proprio come capitolo caratteristico del cinema moderno sottomesso dalla tecnologia, e la commistione di generi come ricerca di uno spettacolo filmico totale ed indiscriminato.
Dal terrore puro allo splatter, dalla parodia all'azione, dal thriller al grottesco, fino a giungere al western, genere meno lontano dall'horror di quanto per parecchio tempo si è creduto, nella ricerca della sopravvivenza che l'uomo compie continuamente e nel duello perenne contro i propri simili e contro l'ambiente spesso configurato come misteriosa scatola da cui può da un momento all'altro emergere qualsiasi tipo di abietta mostruosità. Il tutto nella fiumana dell'inverosimile dissacrazione, dalla rottura di ogni tentativo di finzione e mimesis con il testo narrato per sposare invece l'antinaturalismo di marca brechtiana (Seth-Clooney nella prima scena guarda dritto verso la macchina da presa, ed è un espediente che utilizzerà più volte, come sintomo di piena complicità referenziale con lo spettatore, fino a sparare in faccia allo spettatore stesso nella seconda parte del film) all'uso dello splatter (il buco nella mano di Richie-Tarantino) come forma di parossismo e di riso.
Siamo proprio nella zona d'ombra di quella carnevalizzazione di cui parla Michael Bachtin nel suo celebre studio L'opera di Rabelais e la cultura popolare (1965) , ovvero le caratteristiche proprie del mondo carnevalizzato (l'irrisione, il capovolgimento, il pastiche, il bizzarro e il grottesco) imposte come prassi quotidiana sia dello scambio comunicativo della realtà sia nella sua raffigurazione televisiva e, aggiungiamo, cinematografica. Una carnevalizzazione permanente che trova massimo riflesso proprio nell'esasperazione del fattore comico posto per ovviare al tabù del cinema dell'orrore come oggetto disponibile per una limitata gamma di seguaci.
Fondamentale nel film è anche la religiosità, negata e aborrita, ricercata e temuta, invocata e derisa. Una delle donne caduta in ostaggio dei due fratelli si chiama Gloria, e verrà macellata dal folle Richie. Il capo della famiglia rapita successivamente, Harvey Keitel, è un pastore che ha perso la fede e che dunque si sente indegno a proseguire la sua missione apostolica, e inoltre ha nome Jacob (evidente riferimento biblico). Nel prosieguo del film i protagonisti cercano motivazioni religiose riguardo alla disavventura che sta loro accadendo, si dilungano in discussioni teologiche atte soprattutto a confutare la perdita della fede di Jacob, cercano l'aiuto divino come ultimo appiglio per difendersi da una morte che sembra loro imminente: una religiosità dapprima annientata dialetticamente e simbolicamente, poi per gradi recuperata e posta al centro della lotta per la sopravvivenza.
Da qui si dipana tutta una serie di insiemi di significati, spesso confusi e non necessari alla narrazione, in un tentativo a tratti maldestro di rendere filosofico e concreto un apparente divertissement adatto ad un pubblico giovane e spensierato: dall'uso smodato e ricercato fino all'eccesso della parolaccia, in modo da rendere un linguaggio il più possibile inerente alla vera realtà parlata per le strade americane, alle musiche intra ed extra-diegetiche nella quasi totalità riconducibili al filone country anni '60/'70.
E poi, sopra e intorno al tutto, il sesso. Onnipresente e onnipotente, il sesso domina la messinscena in ogni sua possibile accezione: l'elemento sessuale è di volta in volta goliardico (la presenza di Sex Machine Tom Savini) e repressivo, feticista e voyeurista (l'eccitato sguardo di Richie che divora con gli occhi la giovane Juliette Lewis), nonché divino (Madame Macabre, femme fatale autrice dello spettacolo hard all'interno del Titty Twister), il tutto comunque portato entro i margini della carnevalizzazione di cui abbiamo sopra parlato.
Non mancano neppure momenti di denuncia sociale, dal razzismo (il Titty Twister è micro-cosmo riservato unicamente a motociclisti e camionisti e chi non appartiene a queste categorie non può farne parte) alla critica della tv-verità (la giornalista televisiva che si occupa della fuga dei due detenuti spinge l'enunciazione sul terreno del sensazionalismo e dell'autocompiacimento), all'ennesimo, immancabile e meramente pleonastico inserto dedicato al ricordo della guerra in Vietnam di uno degli assediati all'interno del locale dopo l'inizio della lotta contro i vampiri.
I vampiri del Titty Twister vivono nascosti, mescolati con l'umanità, impossibili da identificare tra le spoglie umane di cui si sono dotati.
Mantengono fedele l'appartenenza alla comunità (l'inizio della battaglia parte proprio quando uno di loro viene malmenato da Seth e Richie, e gli altri intervengono per difenderlo), alla famiglia, allo status di creature diverse che si mantengono in vita nel grembo protettivo della similitudine con altri esseri a loro affini, lontani dalla solitudine esistenziale e disperata del Nosferatu di Herzog (1978) e dalla logica del sospetto e del possesso imperante in Interview with the Vampire (di Neil Jordan, 1994), ma ancora troppo timidi per invadere completamente le strade metropolitane come faranno in Blade (di Stephen Norrington, 1998) e in The Addiction (di Abel Ferrara, 1995).
Non è lo studio analitico e figurativo sui vampiri che interessa gli autori del film (le loro fattezze non si allontanano dall'iconografia già presente nel Bram Stoker's Dracula di Coppola, e le tecniche con cui distruggerli riconfermano in maniera un po' anacronistica, e crediamo volutamente irrisoria, i topoi classici del paletto acuminato, del crocefisso e della luce del sole), ma il divertimento puro, l'esplosione della realtà filmica, la visione dello splatter come strumento di definitiva ridondanza e per questo di mancanza di ogni tipo di inquietudine agli occhi dello spettatore.
E' forse la morte definitiva del cinema del terrore, quel cinema che dai tempi di Tod Browning e Jacques Tourneur si è evoluto fino a scomparire nel magma della modernità, ed è l'accezione fedele allo splatter nel senso del puro significante: to splatter, cioè schizzare, spruzzare, cospargere, ovvero cospargere il pubblico di violenza e divertimento senz'altre implicazioni psicologiche e senza nessun sforzo mentale di comprensione e adattamento alla realtà impressa su pellicola.
Un grand guignol zeppo di citazioni cinefile a profusione, dal pavimento ingombro di membra che si muovono da sole (Re-Animator, di Stuart Gordon, 1985) ai pipistrelli che circondano dall'esterno il locale (The Birds, Gli uccelli, di Alfred Hitchcock, 1963), alla motosega utilizzata nella battaglia finale (Braindead, di Peter Jackson, 1992).
In tutto questo marasma la dissacrazione del Mito è compiuta, e la nuova accezione dell'horror moderno come carnevalesco videoclip è pronta per essere codificata ed omologata.
DAL TRAMONTO ALL'ALBA
(Usa, 1996)
Regia
Robert Rodriguez
Sceneggiatura
Quentin Tarantino
Montaggio
Robert Rodriguez
Fotografia
Guillermo Navarro
Musica
Graeme Revell
Durata
108 min