Sofia Coppola
Il giardino delle vergini suicide: lost in transition
di Claudio Cinus
In un romanzo di Daniel Pennac, Signor Malaussène, c'è un personaggio che afferma che "I registi che contano veramente non hanno mai prodotto dinastie alla Bach, alla Strauss". Questo personaggio fa parte di un gruppo di cinefili un po' spocchiosi e pedanti, a cui verrebbe voglia di rispondere anche solo per contraddirli. Se io fossi stato dentro quel romanzo, mi sarei accodato a chi citava i Tourneur e gli Ophüls per aggiungere: "E non dimentichiamo i Coppola". Perché è sorprendente come Sofia Coppola sia riuscita, con soli due film, a mostrare una creatività artistica decisamente personale, senza subire apparentemente il peso di un padre celeberrimo (per quanto quasi pensionato). Il successo inaspettato di Lost in translation non deve far dimenticare che la giovane regista aveva esordito con un altro film indipendente, che già mostrava il talento riconosciuto a livello mondiale con la seconda opera. Il giardino delle vergini suicide narra l'ultimo periodo di vita delle cinque sorelle Lisbon che, come si evince con chiarezza dal titolo, non superarono l'adolescenza per loro scelta. La Coppola si è imposta subito come artista estranea alle logiche di mercato del cinema americano, molto più vicina alla sensibilità europea, per la scelta della storia, dall'argomento decisamente insolito, ma soprattutto per il modo in cui ha trattato la materia, come facendo passare l'orrore di una vicenda che trasuda morte attraverso un filtro purificatore; il film non è mostrato come crudo fatto di cronaca su cui ragionare, ma come una fiaba nera da accettare senza domande e riserve.
Nel film si evita volutamente di intraprendere un'analisi sociologica per spiegare le motivazioni dei gesti delle cinque protagoniste, e dei loro genitori. Non sapremo mai perché non sono riuscite a crescere e hanno rinunciato alla vita. Non è neanche importante capirlo, perché sono i ragazzi che le guardano ad avere un'importanza centrale. La voce fuori campo che accompagna la narrazione, con un misto di rimpianto e rassegnazione, appartiene proprio ad uno di coloro che le avevano conosciute, e le avevano mitizzate al punto da renderle fantasie quando erano ancora in vita. Si gioca continuamente su questo doppio binario. Ambientale, innanzi tutto: il mondo delle cinque adolescenti e dei loro coetanei è diverso. Tornano in continuazione le case unifamiliari, i prati, le cancellate, anch'essi affiorano come reminiscenze del Michigan degli anni '70; quando le sorelle, che vivono dentro una casa gelida e inquietante, osservano da un'auto quelle strade così familiari ai loro coetanei ma così lontane da loro, si uniscono idealmente all'ambiente per creare un unico ricordo che comprende persone, oggetti, momenti, sensazioni.
Poi le diverse prospettive: le Lisbon resteranno per sempre cristallizzate nella percezione altrui della loro giovinezza, i ragazzi sono "sopravvissuti" ma non possono fare a meno di tornare indietro al passato. Le musiche degli Air danno la piacevole sensazione che si prova al risveglio, quando si cerca di non perdere nella veglia qualcosa di bello che si è appena sognato. Conferiscono a tutto il film un aspetto onirico, proprio di chi ricorda ciò che di più bello e tragico ha vissuto nella sua infanzia. La stessa storia sarebbe potuta essere raccontata in maniera più patetica dalla giornalista, più sconcertata dai genitori, più moralista dai vicini di casa, ma la regista ha preferito, sin da questo film, aderire alla convinzione che il cinema possa essere un mezzo per rappresentare non solo le storie, ma soprattutto i sentimenti, accettando quindi la sfida di mostrare qualcosa che, per la sua sfuggevolezza, non può essere spiegato ma solo fatto intuire. Per ottenere questo effetto, la scelta è caduta sui personaggi innamorati delle cinque sorelle, proprio perché essi, evocando un periodo che vogliono mantenere inalterato, hanno rinunciato in partenza a capire.
E la luce. Le sorelle Lisbon sono belle, ma soprattutto appaiono luminose (e si chiama Lux la più affascinante del gruppo). Hanno sguardi che corrono sempre altrove. Sorridono quando sono in pubblico, assumono un'aria perversa quando un maschio entra nella loro casa. Sono mostrate come è bello ricordarle. Non a caso le scene in cui appaiono più "normali", quasi sciupate, sono gli interni casalinghi, in assenza di figure estranee alla famiglia; ricostruzioni faticose di momenti privati che non appartengono a chi ricorda. La differenza netta tra le memorie positive e quelle negative esplode nel drammatico finale, quando i quattro giovani immaginano di fuggire con le sorelle Lisbon, in un quadro di dolcezza e felicità, ma subito dopo si imbattono nei loro cadaveri, nel buio della casa che era stata loro imposta come tomba. Per chi le ha amate, esse continueranno ad essere accarezzate dai raggi del sole, sdraiate nel loro giardino o nei campi, ma il chiarore sparisce, nelle loro menti, quando devono ricostruire ciò che è successo dopo la tragedia. Ogni tentativo di comprendere quel gesto definitivo resterà vano, perché il mistero sarà parte fattiva del loro perdurante fascino.
In definitiva, nei destini opposti di chi ha scelto di passare all'età adulta, e di chi ha deciso di morire, si manifesta il tema classico di eros (la scoperta della sessualità, dei desideri, delle difficoltà, da parte di entrambi i sessi) e thanatos (la fine dell'innocenza, il suicidio, ma anche gli alberi che sembrano sani e invece sono malati), una dicotomia intesa non tanto come conflitto, quanto come completamento: come noi ci serviamo dell'immaginazione per completare (e perfezionare) la nostra realtà.
Si potrebbe già cominciare a trovare temi ricorrenti, rimandi e parallelismi con il successivo Lost in translation: ma la povera Sofia è ancora troppo giovane per dover subire le interpretazioni critiche della sua esigua opera omnia! Tuttavia è curioso provare a fare un gioco, immaginare un collegamento impossibile tra i due film; che la Charlotte sperduta a Tokyo, interpretata da Scarlett Johansson, sia una sesta sorella Lisbon. Bella come loro, altrettanto sensibile e altrettanto "aliena" dal mondo circostante in cui fatica a ritrovarsi, ma che, con coraggio, ha scelto le piccolezze e le difficoltà della vita, all'immortalità del gesto estremo. Giovanni Ribisi, che nel primo film era la voce narrante di un uomo che da giovane aveva conosciuto e vagheggiato le sorelle, nel secondo film ha quindi sposato una di loro. E ovviamente il matrimonio non funziona. Il passaggio dalle fantasie adolescenziali alle responsabilità adulte si è rivelato poco proficuo; portare nel presente i propri desideri è equivalso a ucciderli. Non si possono sposare i propri sogni.
IL GIARDINO DELLE VERGINI SUICIDE
(Usa, 1999)
Regia
Sofia Coppola
Sceneggiatura
Sofia Coppola
Montaggio
Melissa Kent, James Lyons
Fotografia
Edward Lachman
Musica
Jean-Benoît , Dunckel, Nicolas Godin
Durata
97 min