William Friedkin
L'esorcista
di Paola Infelise
Ciò che Friedkin mette in scena è sin troppo chiaramente una metafora della sotterranea "mostruosità" della società contemporanea. Il regista tenta di colpire al cuore la società americana a lui contemporanea, di demolire la rassicuranti immagini del nucleo familiare come fonte di sicurezza e dell'affermazione professionale come stabilità ed equilibrio.
La dodicenne Regan è circondata da una madre attrice famosa ma nevrotica, un padre assente che non si ricorda di chiamarla per il suo compleanno, domestici svizzeri apparentemente incapaci di emozioni, preti che rubano whisky o che, come padre Karras, dichiarano di aver perso la fede.
Il diavolo, il male, l'odio e la menzogna sono già presenti, non c'è bisogno che arrivino da mondi o società lontane, come sarebbe più semplice credere e come cerca disperatamente di credere per l'intero arco del film la madre di Regan. La bambina, colei che dovrebbe rappresentare l'innocenza e la lontananza da ogni male, è il corpo del quale il demonio si impossessa per continuare la sua opera di distruzione, per mentire, confondere, mescolare menzogna e verità non offrendo nessun'altra difesa che il non ascoltarlo.
L'abilità di Friedkin consiste nel farci credere che i personaggi siano minacciati da un pericolo esterno incombente. Sin dall'inizio li segue, li coglie in mezzo alla folla, sferzati da un vento che muove le foglie e fa apparire le suore e i preti che appaiono in inserti fugaci come immagini di fantasmi del passato. Si crea nello spettatore l'attesa di qualcosa di misterioso e sconosciuto che sconvolga le esistenze dei protagonisti. Lo spettatore, in attesa di un terrificante elemento esterno, trova il suo corrispettivo tra i personaggi nella madre di Regan.
Come Friedkin si diverte sviando il pubblico dall'effettiva provenienza del male, e cioè il cuore stesso dell'uomo, così tende alla donna una serie di tranelli, proiezioni del suo stesso desiderio di non ammettere la mostruosità annidata tra le pieghe della propria esistenza e di attribuirla ad un esterno sempre indefinito e mai svelato.
Così divengono numerosi i richiami ad una dimensione esterna che in fondo non esiste: le finestre sempre aperte in camera di Regan, i rumori provenienti dalla soffitta, i topi "inesistenti" ai quali questi rumori vengono attribuiti, l'estenuante appellarsi alla scienza e l'ostinazione dei medici nel voler credere che tutto dipenda da una lesione al lobo temporale destro. La scritta che si scorge sul ventre di Regan, "help me", diventa contemporaneamente la prova per ottenere l'esorcismo e l'immagine emblematica di ciò che il film sottende, del pericolo che corrono le nuove generazioni di essere sommerse, fagocitate dal male e dall'orrido nel quale sono state costrette a nascere e a vivere.
Regan viene salvata, il diavolo che la possiede cede ad un imperioso "prendi me" di padre Karras, ma non scompare, si trasferisce in un altro corpo. Il finale non è risolutorio, non c'è la ricomposizione dell'ordine, nessuna carica liberatoria è presente là dove persiste l'orrore contemporaneo. Regan non è più posseduta ma non la sentiamo per questo meno minacciata.
La bambina diventa l'esempio più esplicito di cosa possano divenire le persone in una società totalmente ripiegata su se stessa: un diavolo mascherato da angelo, inserita in un meccanismo di lotte continue dove ciò a cui assistiamo non è altro che il ripetersi della sfida (come dice Max Von Sydow all'inizio del film) "evil against evil".
L'ESORCISTA
(Usa, 1973)
Regia
William Friedkin
Sceneggiatura
William Peter Blatty
Montaggio
Norman Gay, Joan Leondopoulos, Evan A. Lottmann, Bud Smith
Fotografia
Owen Roizman
Musica
Krysztof Penderecki, Jack Nitzsche, Mike Oldfield
Durata
122 min