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Cieli
e stelle sono un buon pretesto. Secondo ciò che sostiene Tarkovskij
in Scolpire il tempo (Ubulibri, Milano, 1986), sentita riflessione
sulla propria opera e sul proprio pensiero, nel caso di Solaris non è
la fantascienza intesa come tentativo di film di genere a interessarlo,
piuttosto le psicologie dei personaggi che agiscono in una situazione
limite, quella futuristica, appunto.
In realtà, quello che colpisce di questa pellicola è
una certa propensione al visionario e al contemplativo, caratteristica
che balza agli occhi fin dall'inquadratura iniziale: acqua di stagno
e alghe fluttuanti accompagnate - montaggio ejsensteniano verticale
- dalle note di Bach. Tarkovskij programma così il film (pur
mutilato nella versione italiana e doppiato malamente) a essere prima
di tutto un'esperienza sensoriale, spaziale (cioè di rapporti).
Il fine è quello di raffigurare l'atto della conoscenza prima
di ogni tipo di concettualizzazione.
Il resto, trama compresa, è semplice pretesto. Lo psicologo
Kelvin deve indagare su strani fenomeni avvenuti in una stazione orbitante
che gravita attorno al pianeta Solaris, un corpo celeste caratterizzato
da un immenso oceano. Bombardato da radiazioni, il pianeta - mostro
magmatico pensante - reagisce risvegliando nelle menti degli astronauti
ossessioni passate: nel caso del protagonista l'incubo è la materializzazione
di Harey, la compagna morta suicida anni prima.
Da apparizione quasi eterea, la donna diventa poco a poco sempre più
"umana". Kelvin se ne innamora nuovamente. Harey cerca più
volte la morte, sempre fallendo; ma alla fine riesce nel suo intento
sottoponendosi a un annichilatore. Il protagonista ripiomba nella solitudine.
Tornato sulla terra lo psicologo va dal padre e, inginocchiatosi di
fronte al vecchio, pare riflettere sugli avvenimenti da lui recentemente
vissuti; ma un dolly senza fine mostra come la casa in cui i due si
trovano sia in realtà dislocata al centro dell'oceano di Solaris.
Questo finale enigmatico difficilmente si presta a un interpretazione
precisa: le coordinate spazio-temporali sono saltate: il "dopo"
è ancora un "prima" e la terra si identifica col pianeta
Solaris. La narrazione pare fallace e il colpo di scena spiazzante.
In questo caso la figura autoriale del regista si impone con forza,
descrivendo un oceano a meta' tra il maelmstrom di Poe e il mare ondoso
della conoscenza del talmud ebraico.
Tarkovskij è un russo legatissimo alla tradizione del proprio
paese, sempre alla ricerca di una dimensione poetica del cinema, per
questo intraprende vie diverse dai registi occidentali, anche se ne
comprende la lezione. Le forme e i modi che inventa in questo film lo
possono avvicinare al Kubrick di 2001 (infatti la stampa dell'epoca
parlò di risposta russa all'odissea nello spazio), ma poco si
riscontra della potenza lisergica dell'epos kubrickiano: meglio considerarlo
cinema di confine, separato, magari risibile per la sua ingenuità,
ma indubbiamente carico della personalità di Tarkovskij, davvero
molto affascinante.
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