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Tarsem Singh, genio indiano della pubblicità,
celebre per gli spot e i videoclip realizzati ed indiscusso talento visionario
dell'universo audiovisivo, con The Cell offre un esempio calzante
della preponderanza assoluta della forma filmica sul piano contenutistico
e drammatico.
La storia appare come un mero pretesto: le indagini per trovare il luogo
in cui un pericoloso psicopatico ha nascosto una giovane per seviziarla
e ucciderla offrono soltanto il marginale impianto narrativo che Tarsem
aggira puntando apertamente sulle sequenze oniriche, disgregando il tessuto
organizzato della vicenda per inserirvi la sua lussureggiante iconografia
caratterizzata da delirio visivo, colori squillanti e sovradeterminati,
vertiginosi tagli delle inquadrature, citazioni che mischiano magistralmente
cultura alta con deformazioni pop e riferimenti al passato della storia
del cinema (si passa senza soluzione di continuità da Salvador
Dalì a Hieronymus Bosch, passando attraverso le suggestioni tratte
dalla favola di Biancaneve e dalla casa di Barbie, senza citare Powell,
Pressburger e Demme).
E così surrealismo ed incubi fiamminghi si legano a doppia mandata
con l'espressionismo pubblicitario mostrato in passato e con le variazioni
di ritmo, l'ipertrofia e il cromatismo del videoclip. La narrazione procede
attraverso l'unicità dei suoi quadri e non per manifeste consecuzioni
spazio-temporali, per artefatte e sofisticatissime immagini e non in virtù
di una determinante logica di implicazione causale. Una concezione fatta
di pulsioni e non di esposizione, per un cinema che mostra e stupisce
non raccontando.
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