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Documentario che diventa (finto)
documento. Oggetto: il perdersi di tre studenti videoamatori in un bosco
del Maryland, ma anche la loro progressiva caduta verso la follia e l'angoscia
di non potersi liberare dalla presenza di un qualcosa che li segue e vuole
far loro del male. Che il pericolo sia umano o diabolico (a patto che
ne esista la differenza), l'unica certezza sta nell'inguardabilità
di questo male oscuro.
Dopo un incipit solo apparentemente rassicurante (i preparativi del progetto,
la partenza) e un momento centrale ben calibrato sui toni dell'attesa
del disorientamento, della paura e del dubbio, il film si chiude col progressivo
annientamento dei protagonisti. Un canovaccio quasi inesistente per una
ricerca esoterico/antropologica frammentata (ad arte) e irregolare.
Immagini sconnesse, senza musiche a fare da collant, senza silenzi (perché
le voci isteriche arrivano a coprirli), le ellissi del racconto coincidono
con i tempi che intercorrono tra lo spegnere e il riaccendere la videocamera
o la 16mm (i media tecnici in dotazione). A volte i due tipi di vedere
(le due grane diverse) si accompagnano in successione, alternandosi, e
ciò giocherà un ruolo di spicco nelle ultime agghiaccianti
sequenze all'interno della casa. Già, perché nel bosco -
chissà esattamente dove - c'è una casa che sui muri ha segni
di piccole mani. Lì è la morte, lì è il castigo,
lì è la strega. Lì è la visione diversa, perché
a un certo punto a vedere non è nessuno dei tre giovani, nemmeno
Joshua da tempo scomparso, da tempo urlante.
Questo il nero di THE BLAIR WITCH PROJECT.
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