Paolo Virzì
Roma Ovest 143
In una Roma fredda e anonima si consuma uno scambio di sguardi castrato.
Così Virzì conclude l'avventura di un appuntamento al buio tra un tecnico dell'azienda telefonica e un'attrice un po' su con l'età e un po' appesantita nella linea: un veloce scambio di sguardi, silenzioso ma crudele. Il cinema da sempre gioca con gli occhi degli attori, attraverso di essi gli spettatori partecipano e vivono il film. Ma in questo caso Virzì, con spietata maestria, spezza l'incantesimo: i personaggi si guardano un attimo, ella fa per salutare, egli, deluso, vigliaccamente scappa. Il silenzio che resta dopo questo scambio è il silenzio dell'amarezza e della violenza, che subisce lo spettatore stesso nel vedere castrata la storia e la partecipazione a essa.
Per contestualizzare, anche se il corto in verità si regge in piedi anche da solo, il film di Virzì fa parte di un progetto più ampio e costituisce, insieme ad altri 21 cortometraggi, Intolerance (Italia, 1996, AA.VV), un film-catalogo contro l'intolleranza («[...] un progetto aperto in sé e aperto agli autori e ai produttori di tutto il mondo, almeno fino a quando sarà necessario che il cinema faccia sentire la propria voce per difendere l'Uomo dall'Uomo» - dalla presentazione del teatro Arka: spazioarka).
Ma forse Virzì va aldilà del discorso sull'intolleranza e ci mostra una storia dove il cinismo e l'egoismo sono i veri protagonisti, oltre a denunciare seriamente l'incapacità dell'uomo moderno (quanto più è solo) di instaurare degli incontri veri, disinteressati, liberi, sinceri. Nella prima parte vediamo la donna in casa, ascoltiamo insieme a lei la voce dello sconosciuto e quasi con naturalezza ci prepariamo all'appuntamento. Dallo spazio interno della casa, cieco ma protettivo, siamo trasportati all'esterno, spazio dominato dal rumore caotico e dalle luci del traffico serale: il luogo dove in un attimo si consuma la violenza, nell'indifferenza di una città in movimento.
Anche questo sembra dirci Virzì: la violenza che si consuma con gli occhi non fa meno male di una violenza carnale. Il cinema offre la possibilità di rappresentare perfettamente questa violenza non detta; una violenza perpetrata ai danni del cinema stesso, quando si ha paura di vedere, di incontrare, di conoscere. Nel finale il senso di vuoto e di silenzio è costruito dal regista con grande attenzione: il rumore del traffico diminuisce, rimane qualche clacson distante. A sottolineare la solitudine di una donna, prima protagonista attiva nel caos della sera (importanti erano i campi /controcampi concentrati sullo sguardo della donna), poi comparsa, vittima gratuita di una fascinazione delusa.